Identificare precocemente la malattia di Parkinson è fondamentale.
Quando infatti si presentano i primi sintomi clinici il danno è spesso ormai fatto: quasi il 70% dei neuroni cosiddetti dopaminergici sono già compromessi.
Purtroppo i segni del processo patologico, i cosiddetti biomarkers, producono alterazioni inizialmente impercettibili, tant’è che da oltre 40 anni gli scienziati sono alla ricerca di metodi adatti a individuarli per tempo, prima cioè che la malattia inizi a manifestarsi, quando ormai la maggior parte dei neuroni dopaminergici è danneggiata.
Il ferro è un marker? La ricerca di marker in grado di fornire conferme di laboratorio e di allertare circa l’aumento del rischio di malattia va avanti da anni: i National Institutes of Neurological Disorders and Stroke americani hanno attivato una ricerca incentrata sull’accumulo di ferro nella substantia nigra. Se alcuni ricercatori dell’Università della Corea del Sud hanno verificato che nel parkinson l’accumulo di ferro non costituisce un biomarker indicativo di neuro degenerazione, studiosi delle Università di Bethesda, Pittsburg e Honolulu insieme a quelli islandesi di Reykjavik e inglesi di Broomfield hanno riscontrato accumulo di ferro nel cervello di Parkinsoniane cinquantenni.
Secondo un recente studio effettuato a Taiwan la depressione può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia, ma uno dei più promettenti filoni di ricerca si focalizza sul riscontro di precoci alterazioni olfattive. La ricerca, attuata da ricercatori dell’Institute for Neurodegenerative Disorders di New Haven, hanno dimostrato che quasi metà (46%) dei pazienti con diminuzione della sensibilità olfattiva (iposmia) potrebbe sviluppare, negli anni, manifestazioni cliniche della malattia.