di Filippo Passantino
«Fin dalla loro introduzione nella pratica clinica, i farmaci biotecnologici hanno rappresentato un’importante innovazione e un significativo progresso nel trattamento di numerose patologie, soprattutto in ambito endocrinologico, oncologico e nelle patologie autoimmuni. Purtroppo, le poche risorse della sanità, i tagli alla spesa farmaceutica e i costi dei ticket, non potranno controbilanciare, da soli, ancora per molto, la spesa per i farmaci innovativi», sostiene il professore Achille Patrizio Caputi, farmacologo, docente all’Università di Messina.
L’argomento farmaci innovativi e spesa sanitaria è stato al centro di un convegno che si è svolto a Palermo e che ha visto protagonisti farmacologi, medici, esperti di economia, rappresentanti dei pazienti.
Tante le possibili soluzioni proposte, che vedono come comune denominatore un maggiore coinvolgimento del medico: a partire dalla prescrizione di farmaci equivalenti, (rappresentano ancora una quota bassa della spesa farmaceutica convenzionata), a quella dei “biosimilari” «Questi ultimi – spiega il professor Caputi rappresentano delle proteine e comportano una complessità molecolare di gran lunga superiore a quella dei farmaci equivalenti». Attenzione, però, a non definire i biosimilari come i “generici dei farmaci biotecnologici”.
«Con biosimilare – sottolinea Caputi – si intende un farmaco biologico, di un’azienda farmaceutica, il cui brevetto è scaduto e altre ditte possono riprodurlo ad un prezzo naturalmente più basso. Questa tipologia di farmaci è certamente più complessa e si differenzia dai cosiddetti prodotti “equivalenti” i quali riproducono la stessa molecola con brevetto scaduto, mentre il biosimilare, trattandosi di proteina che va sintetizzata da un organismo biologico, non può, ovviamente, essere uguale all’originatore, ma l’efficacia terapeutica deve essere sovrapponibile».
Il capostipite dei farmaci biologici è stata l’insulina. «Una volta – dice il professore Caputi – si usava l’insulina porcina. Poi, grazie a tecniche di ricombinazione genica, è stato prodotto il biosimilare dell’insulina, l’insulina umana».
L’approvazione dell’uso dei biosimilari è centralizzata a livello europeo. Esiste una particolare regolamentazione che prevede, a differenza dei “generici”, che accanto a prove di bioequivalenza ci siano prove molto più estese, tra i quali, spesso, quelle cliniche. Questa tipologia di farmaci deve dare alcune garanzie. «Deve dimostrare – aggiunge Caputi – di avere un profilo di efficacia e sicurezza sovrapponibile a quello originale, come il generico, ma attraverso prove più complesse».
L’aggiornamento della normativa è continuo, proprio per garantire che, di fronte a nuove conoscenze, migliori la prospettiva che questi farmaci assicurano. Per gli esperti, è indispensabile anche un aggiornamento continuo per i medici.
Quali i vantaggi dell’uso dei biosimilari? Anzitutto, il costo inferiore. «Di certo – conclude Caputi – si può risparmiare enormemente utilizzando i biosimilari che hanno la stessa efficacia terapeutica, ma costano di meno. Il loro impiego consente di recuperare risorse da reinvestire nel migliorare la qualità delle terapie e apre anche la prospettiva di recuperare risorse per poter utilizzare quei farmaci innovativi che stanno per essere disponibili».
Sulle cure in Sicilia, si esprime il presidente di Cittadinanzattiva Sicilia, dottor Giuseppe Greco. E auspica che i cittadini assumano un ruolo importante nel rendere il processo terapeutico organico e funzionale, attraverso, in particolare, due organismi ai quali partecipano: i Comitati consultivi all’interno delle singole aziende sanitarie e la Consulta regionale della sanità.
«Come le grandi imprese, anche la Regione deve investire nell’innovazione e lo può fare liberando risorse in maniera attenta», dice Greco, che evidenzia come la cura sia un obiettivo importante, così l’aderenza alla terapia che, soprattutto nella popolazione anziana, è bassa. «Sono in molti – sostiene il presidente di Cittadinanzattiva-Sicilia – a non coprire neanche il 40 per cento delle giornate di terapia, rendendo vana l’azione terapeutica del farmaco. All’origine c’è un problema educativo. Non bisogna vivere il rapporto col farmaco come una condizione di sofferenza, ma come un qualcosa che aiuta a raggiungere obiettivi di vita impensabili in passato».